“Se non fai i numeri la gente non ti calcola
È una repubblica fondata ormai sull’algebra”
Willie Peyote
Qualche mese fa ho assistito ad un’iniziativa volta alla valorizzazione dei piccoli borghi, in particolare tramite il turismo. Si raccontava una “nuova” figura professionale, a metà tra una guida ed un influencer che, producendo contenuti accattivanti in paesi poco noti ma tipici, e condividendoli tramite social, li avrebbe fatti conoscere al grande pubblico. Il risultato ambito era quindi l’aumento del numero di visitatori, senza meglio specificare (perlomeno in quella sede) a quale tipo di pubblico si facesse riferimento, per quale motivo o a beneficio di chi. Un dato prettamente quantitativo piuttosto che qualitativo, dove l’essenziale era l’aumento.
Ho iniziato a chiedermi se ci sono anche altre occasioni nella quotidianità in cui attribuiamo automaticamente valore positivo al segno “+” accanto ai numeri che ci circondano. Insomma, quali numeri contano? Partiamo da esempi banali.
Quando andiamo ad un concerto o ad un evento sportivo, ad esempio, spesso raccontiamo del fatto che ci fossero moltissime persone. Questa informazione affianca quella relativa alla performance del cantante o al risultato sportivo, come se le attribuissimo pari dignità. Allo stesso modo ci capita di dare più credibilità alle persone in base alla loro popolarità, facilmente quantificabile con il numero di followers o visualizzazioni di contenuti.
Cosa significano per noi eventi con decine di migliaia di persone, pagine con migliaia di K o video con milioni di visualizzazioni? In primo luogo le opinioni condivise ci rassicurano, meglio se condivise da tantissime persone. Se a moltissimi piace quel cantante, quel locale, quel borgo, deve essere fantastico. Allo stesso tempo, alcune persone sentono la necessità di far parte di un gruppo speciale, diverso dagli altri gruppi, di “qualcosa di più grande”, che non lo faccia sentire escluso, che può condividere solo con le persone che capiscono la sua stessa passione (anche se sono migliaia).
Per rispondere a questo bisogno quindi continuiamo a costruire stadi per eventi sportivi e ricerchiamo location da adibire a concerti sempre più grandi. Oppure ci rechiamo, tutti insieme e nello stesso momento, negli stessi piccoli paesi, preferibilmente quelli con un grande attrattore comodamente raggiungibile.
Promuovere l’arrivo di migliaia di persone in un luogo, con una permanenza media di qualche ora, non significa in automatico valorizzazione dei monumenti; né crescita economica o del benessere degli abitanti (il personale impiegato nei ristoranti e negli alberghi spesso non è residente, il turismo mordi e fuggi ha alti costi per l’Amministrazione, i residenti possono sentirsi a disagio); tantomeno significa arricchimento dei visitatori, ai quali raramente vengono proposte visite guidate di qualità o fornite informazioni che lo aiutino a comprendere l’importanza dei luoghi.
Parlando dell’attenzione che poniamo all’aumento di alcune cifre però, non si può non considerare l’importanza data alla ricchezza economica delle nazioni e delle persone. I numeri sui quali si pone l’attenzione sono quindi il Pil e il reddito pro capite, alla crescita dei quali si associa l’idea che le persone stiano meglio. Non è un segreto però che questi non siano dati particolarmente significativi ai fini della verifica del benessere degli abitanti[1]. Gli studi sintetizzati dal professor Bartolini[2] raccontano come la soddisfazione delle persone per la propria vita aumenti sì all’aumentare del reddito, ma che questo è valido solo per le classi più povere. Superata la soglia della povertà, il denaro influisce sempre meno sulla felicità delle persone.
Si potrebbe quindi affermare che, garantito il guadagno necessario per soddisfare i bisogni di base (acqua, cibo, casa, vestiti…) e poco più, l’importanza che il denaro assume rispetto alla sensazione di felicità diventa sempre meno. Piuttosto che dire ‘I soldi non fanno la felicità’, sarebbe più corretto affermare che ‘Tantissimi soldi non fanno la felicità’. Curioso anche notare come all’aumento del Pil, le stesse classi di reddito si dimostrino meno felici, ovvero che a fare la differenza non è quanto denaro possediamo, piuttosto quanto guadagniamo rispetto agli altri.
Spunti altrettanto interessanti li fornisce lo studio di Harvard sullo sviluppo adulto[3] che ha analizzato le vite di intere generazioni dal 1938 e che è ancora in corso, ponendo ai partecipanti e alle loro famiglie una serie di domande durante tutto il corso della vita, con il fine di comprendere cosa li rendeva maggiormente felici. Gli esiti sono piuttosto chiari: il denaro e lo status sociale hanno un ruolo marginale, mentre a fare la vera differenza è la qualità delle relazioni personali. Le persone con matrimoni duraturi, figli affezionati o amicizie sincere, sono quelle mediamente più felici. E sono le stesse che se ne rendono conto.
Quindi perché siamo ossessionati dall’idea di aumentare alcuni numeri quando a rifletterci non necessariamente ne otteniamo benefici? Sembrerebbe che sia per sentirci parte di un gruppo, per essere rassicurati, ammirati o persino invidiati. Con i grandi numeri quindi pensiamo di essere capiti, avere dei complici e degli amici. Basta qualche semplice grafico o articolo di giornale a dimostrare però che molti soldi non significano felicità, che le visualizzazioni non sono proporzionali all’utilità dei contenuti e che avere più followers non comporta relazioni di qualità. Tutto questo mi porta inevitabilmente a pensare: non sarà che cerchiamo di aumentare tutti questi numeri solo per allontanarci il più possibile dall’unico che ci spaventa davvero: l’uno?
Viola D’Ettore
[1] Numeri molto più interessanti per avvicinarci alla misurazione della felicità delle persone sono, ad esempio, il Fil (Felicità interna lorda), il BES (Benessere equo e sostenibile), il GPI (Genuine Progress Indicator).
[2] Stefano Bartolini, Ecologia della felicità, Aboca, 2021
[3] Robert Waldinger, Marc Schulz, Lezioni sulla felicità, Mondadori, 2023