Anni fa, quando ero una giovane studentessa di architettura, con alcuni colleghi ci incontrammo in un parco della periferia romana per un primo sopralluogo sul lotto oggetto dell’esercitazione del laboratorio. L’esame prevedeva la riqualificazione di una ex zona industriale, oggi area verde degradata ma molto frequentata dalla comunità. Tutti noi già vi immaginavamo grandi edifici altamente tecnologici e di grande impatto (in tutti i sensi!) dove le persone avrebbero potuto incontrarsi, studiare, lavorare, giocare, divertirsi… Non vivendo nel quartiere però, e cercando di raccogliere più informazioni possibili che potessero aiutarmi nella redazione del progetto, pensai di parlare con qualcuno dei frequentatori abituali: un piccolo gruppo di signori anziani mi sembrò un campione adatto. Mi avvicinai e chiesi ad uno di loro come avrebbe migliorato lo spazio, pronta ad appuntare
tutte le esigenze, i problemi da risolvere e i modi in cui un bravo e puntuale architetto avrebbe potuto aiutarlo. Quel signore mi fece parlare, mi guardò con un po’ di comprensivo disappuntoe rispose “a signorì, a noi ce basta ‘na panchina”.
Inutile esprimere la mia delusione in quel momento; pensai che il mio gesto, inclusivo di tutti, persino di uno sconosciuto, non fosse stato apprezzato e, peggio ancora, capito. In realtà a non capire ero stata io, peccato aver impiegato degli anni per rendermene conto. Non avevo capito che quel signore non voleva fantasmagorici edifici, piazze o installazioni, invece ricercava qualcosa di meno evidente ma più importante. Non avevo capito che mi stava parlando di beni relazionali e beni comuni, dell’importanza di quello che non si vede, della possibilità di passare del tempo a parlare con i propri amici tra gli alberi, insomma, di benessere.
Potrà sembrare un discorso romantico: niente di più lontano. Sono ormai numerosi gli studi che dimostrano come elementi di questo tipo possano avere grandi ripercussioni sulla salute mentale e fisica. La presenza di zone verdi nel proprio quartiere (meglio se curate), il tempo libero, le occasioni di incontro con gli altri, sono tutti beni difficilmente quantificabili; ma con evidenti conseguenze sia individuali, in termini di benessere personale, che collettive. Quelli che sono chiamati beni relazionali possono essere ricondotti, anche ispirandosi ad economisti come Luigino Bruni e Stefano Zamagni, nel cosiddetto “capitale sociale”: poter accedere a migliori relazioni, avere a disposizione maggior tempo libero e a spazi comuni di qualità, non solo riduce i costi e rende l’economia più sostenibile; ma aumenta la qualità della vita. Stefano Bartolini in Econologia della felicità (Aboca Edizioni) fa numerosi riferimenti a dati scientifici che attestano come le relazioni sociali siano “il fatto che pesa di più sulla nostra felicità”. In una società felice le persone sono indotte a spendere meno, beneficiando maggiormente dei beni immateriali, riducendo le diseguaglianze di reddito. Le analisi riportate nel testo riportano inoltre che l’assenza di relazioni sociali fa sentire le persone sole, aumentando le possibilità di sviluppare precocemente o in forme più gravi innumerevoli patologie, a partire dai fenomeni di ansia e depressione. In sintesi, come è facilmente intuibile, solitudine e felicità influenzano la salute e, conseguentemente, la spesa sanitaria sia pubblica che privata. Concludendo, seppur trovi riduttivo cercare di ricondurre dei vantaggi sociali ed ambientali ad aspetti prettamente economici, non posso fare a meno di domandarmi: il romanticismo paga?
Viola D’Ettore